Morire senza sapere perché:
Emanuele Iurilli (9 marzo 1979)
Torino, Borgo San Paolo, storico quartiere operaio, al numero 64 di Via Millio ora c’è una sezione di partito, ma nel 1979 c’era un bar bottiglieria.
È venerdì 9 marzo 1979, ore 13.45, due giovani scendono da una Fiat 131 hanno in mano hanno un vassoio di pasticcini. Entrano nel bar bottiglieria di Via Millio, da quei vassoi spuntano delle armi, ma nessuno si accorge di nulla.
In quello stesso giorno alla stessa ora a Torino Nord nel quartiere Madonna di Campagna, gli studenti dell’Istituto Aeronautico Carlo Grassi stanno uscendo da scuola, lì di fronte c’è il bar dell’Angelo, un nome da ricordare nel prosieguo della nostra storia. Emanuele, uno dei ragazzi dell’ultimo anno, è già sul pullman: il tragitto per tornare a casa, a Borgo San Paolo è lungo. Intanto nel bar bottiglieria di Via Millio uno dei ragazzi prende il telefono e chiama la polizia, dice che ha preso un ladruncolo di autoradio e chiede agli agenti di venirlo a prendere. A telefonare è un terrorista di Prima Linea, nome di battaglia Davide. Intanto quel ragazzo sul pullman sta arrivando a casa si chiama Emanuele Iurilli, ha quasi diciotto anni e si sta preparando all’esame di maturità.
Nel bar di Via Millio arriva una volante, il capopattuglia entra nel bar e chiede del ladro di autoradio, davanti a lui c’è Davide, ma Davide non risponde, spara. In quell’istante Emanuele Iurilli sta camminando lungo via Lurisia è a pochi metri di casa, svolta l’angolo su Via Millio, la sua casa è lì al civico 64 sopra il bar bottiglieria. Intanto il poliziotto cade ferito, i colleghi rispondono al fuoco e in Via Millio si scatena l’inferno. Emanuele ha appena svoltato, sente gli spari, non fa in tempo a ripararsi, un proiettile gli trafora il torace. A diciotto anni, Emanuele muore sul selciato, sotto casa, senza sapere perché.
Il commando dei terroristi scappa a bordo dell’auto della polizia. Sulle pareti della bottiglieria e sparsi qua e là nel locale restano dei volantini che ricordano una lapide: sullo sfondo bianco, le facce di due ragazzi e una scritta nera “Prima Linea”. I due ragazzi ritratti sul volantino si chiamano Matteo Caggegi e Barbara Azzaroni sono stati uccisi dalla polizia in un bar di Via Veronese: il bar dell’Angelo qualche giorno prima il 28 febbraio. Per i loro compagni i loro nomi di battaglia sono Charlie e Carla. Prima Linea aveva preparato a Via Millio un’imboscata alla polizia per vendicare Carla e Charlie, morti pochi giorni prima proprio al Bar dell’Angelo davanti alla scuola di Emanuele: una coincidenza. Questa è anche una storia di coincidenze.
Charlie e Carla (28 febbraio 1979)
Dieci giorni prima della sparatoria di Via Millio, il 28 febbraio 1979, Charlie e Carla sono a Piazza Stampalia, stanno pedinando il presidente della circoscrizione di Madonna di Campagna Michele Zaffino.
Il tabaccaio della piazza insospettito, chiama la polizia: due ragazzi hanno appena comprato delle maschere di carnevale, anche se siamo già in quaresima. La polizia fa irruzione in tutti i bar della piazza, anche nel bar dell’Angelo, Carla Azzaroni e Matteo Cageggi stanno prendendo un cappuccino. Sono passate da poco le dieci l’agente entrato nel bar, comincia a chiedere i documenti ai clienti presenti, ma i due non rispondono e sparano. Sparano tutti, Charlie e Carla restano a terra senza vita. Hanno poco più di vent’anni.
In tasca dei due vengono ritrovate le foto di Zaffino che ai loro occhi aveva una grave colpa. Aver distribuito agli abitanti del quartiere un questionario antiterrorismo in cui si invitano i cittadini a segnalare fatti sospetti. Soprattutto la domanda numero 5 aveva fatto arrabbiare i terroristi: “Avete da segnalare fatti concreti che possano facilitare gli organi della magistratura e le forze dell’ordine ad identificare coloro che commettono delitti, attentati e aggressioni?”. Un insopportabile invito alla delazione e al tradimento. Dodicimila torinesi risposero a quel questionario.
Ancora il bar dell’Angelo:
Carmine Civitate
Altre storie si intrecciano intorno al Bar dell’Angelo, altre vendette. Cinque mesi dopo, il 18 luglio 1979, quel ragazzo che chiamerà al polizia dalla bottiglieria di Via Millio, entra nel Bar dell’Angelo. Prima Linea deve vendicare Carla e Charlie suoi militanti, Davide deve vendicare soprattutto Carla la sua fidanzata. Davanti allo stesso bancone sette colpi abbattono il barista Carmine Civitate è lui secondo Prima Linea la spia che ha provocato la morte di Charlie e Carla, è lui che ha chiamato la polizia.La rivendicazione è fatta a “La Stampa” poco dopo il delitto con una telefonata in cui l’organizzazione “Prima Linea - nucleo di fuoco Matteo Caggegi Charlie e Barbara Azzaroni Carla", rivendica l’uccisione della "spia proprietaria del bar" ove avvenne la sparatoria mortale.
Ma si saprà dopo che Carmine non c’entra niente, al processo di Prima Linea, il tabaccaio dichiarerà di essere stato lui a chiamare la polizia, lasciando gli imputati senza parole. Carmine era un immigrato dal sud come tanti, veniva dalla Calabria con una giovane moglie e due figli, era riuscito finalmente quasi a comprare il bar con una casa alla Falchera, quartiere operaio della periferia nord di Torino.
(dal sito vivamarfka.it)
Anni Spietati quando Torino era di Piombo
Repubblica — 01 aprile 2008 pagina 13 sezione: TORINO
L' oblio è la malattia della memoria. Un' infezione che fa deserto. Non lascia vivo nulla. Il racconto è la sua cura. Necessaria, anche se dolorosa. Parola dopo parola, nomi, volti, storie, la medicina contrasta l' oblio e compie la sua opera: impedisce che il passato svanisca, si oppone alle contraffazioni, testimonia le ragioni per cui il presente è così come appare e non altro. Allora il ricordo può alzarsi fiero contro la falce del tempo. E resistere. Più o meno così diceva Shakespeare quattro secoli or sono. Più o meno così fanno Stefano Caselli e Davide Valentini con il loro documentario Anni spietati. Una città e il terrorismo: Torino 1969-1982, regia di Igor Mendolia. Prodotto da SGI per La storia siamo noi di Giovanni Minoli, viene presentato domani alle 21 al cinema Massimo come sigillo al convegno «Follie del documentario» organizzato dalla Film Commission Torino Piemonte. In un' ora con vecchi filmati, documenti e testimonianze, Caselli e Valentini non raccontano solo una vicenda politico-sociale, ma trovano ragioni al presente. Restituiscono dimensione pubblica a terribili ferite private. Recuperano storie di ieri e ricordano che cosa abbiamo alle spalle, quali orrori e dolori, quali illusioni. Fanno parlare la città, la comunità, questo luogo del cielo chiamato Torino, lunghi grandi viali, splendidi monti di neve, come cantava Lucio Dalla. Ripercorrono il periodo che va dal 1976 al 1982, quando Torino respirava al ritmo della grande fabbrica ed era un' altra città, forse inimmaginabile per chi non c' era. La cappa di sofferenza. Il delirio terrorista. La macabra abitudine degli attentati. La paura. I cortei e i funerali. Il senso d' impotenza. E poi, finalmente, la sconfitta brigatista. Sei anni che vengono da lontano, li racconta il film, e si spingono con le loro ombre e i loro effetti fino al nostro tempo. I terroristi pensavano di attaccare e distruggere lo Stato: ammazzavano solo persone e distruggevano famiglie. La dozzina di interviste, dall' allora sindaco di Torino Diego Novelli al giornalista Ettore Boffano, dall' ex militante di Lotta Continua Silvio Viale al giudice Giancarlo Caselli, riportano in primo piano i venti uomini trucidati a Torino e provincia: Emanuele Iurilli, Carmine Civitate, Giuseppe Ciotta, Fulvio Croce, Roberto Crescenzio, Carlo Casalegno, Rosario Berardi, Piero Coggiola, Lorenzo Cutugno, Salvatore Lanza, Salvatore Porceddu, Giuseppe Lorusso, Carlo Ghiglieno, Giuseppe Pisciuneri, Antonio Pedio, Sebastiano D' Alleo, Francesco Cusano, Carlo Ala, Benito Atzei, Bartolomeo Mana. Studenti, baristi, poliziotti, avvocati, giornalisti, impiegati, dirigenti, agenti di custodia, guardie giurate. Vittime di una guerra dichiarata da una parte sola. Via Millio 64, via Po 46, via Gorizia 67, via Petrarca 32, via Perrone 5, piazza Stampalia, eccetera sono i luoghi della mattanza, un rosario geografico, stazioni di un calvario cittadino. Nota Andrea Casalegno, figlio del vicedirettore de La Stampa colpito il 16 novembre 1977, morto dopo tredici giorni di agonia: «Uno può essere ex brigatista, ex terrorista, ma non può essere ex assassino. Assassino era e assassino rimane». Riconosce Ezio Mauro, direttore di Repubblica, cronista di quei fatti e quegli anni: «Le famiglie delle vittime sono state lasciate sole. Ho capito che per superare la fase del terrorismo bisogna rendere onore a loro. Solo dopo essere passati per questa stazione dolorosa e aver trasformato quel lutto privato in lutto della Repubblica, in un vero momento di condivisione, soltanto allora si può chiudere quella stagione. Probabilmente ci siamo, con ritardo drammatico». Ricordare serve a noi, più che alle vittime. Serve al futuro, più che al dolore. - Gian Luca Favetto (dal sito Repubblica.it)
L' oblio è la malattia della memoria. Un' infezione che fa deserto. Non lascia vivo nulla. Il racconto è la sua cura. Necessaria, anche se dolorosa. Parola dopo parola, nomi, volti, storie, la medicina contrasta l' oblio e compie la sua opera: impedisce che il passato svanisca, si oppone alle contraffazioni, testimonia le ragioni per cui il presente è così come appare e non altro. Allora il ricordo può alzarsi fiero contro la falce del tempo. E resistere. Più o meno così diceva Shakespeare quattro secoli or sono. Più o meno così fanno Stefano Caselli e Davide Valentini con il loro documentario Anni spietati. Una città e il terrorismo: Torino 1969-1982, regia di Igor Mendolia. Prodotto da SGI per La storia siamo noi di Giovanni Minoli, viene presentato domani alle 21 al cinema Massimo come sigillo al convegno «Follie del documentario» organizzato dalla Film Commission Torino Piemonte. In un' ora con vecchi filmati, documenti e testimonianze, Caselli e Valentini non raccontano solo una vicenda politico-sociale, ma trovano ragioni al presente. Restituiscono dimensione pubblica a terribili ferite private. Recuperano storie di ieri e ricordano che cosa abbiamo alle spalle, quali orrori e dolori, quali illusioni. Fanno parlare la città, la comunità, questo luogo del cielo chiamato Torino, lunghi grandi viali, splendidi monti di neve, come cantava Lucio Dalla. Ripercorrono il periodo che va dal 1976 al 1982, quando Torino respirava al ritmo della grande fabbrica ed era un' altra città, forse inimmaginabile per chi non c' era. La cappa di sofferenza. Il delirio terrorista. La macabra abitudine degli attentati. La paura. I cortei e i funerali. Il senso d' impotenza. E poi, finalmente, la sconfitta brigatista. Sei anni che vengono da lontano, li racconta il film, e si spingono con le loro ombre e i loro effetti fino al nostro tempo. I terroristi pensavano di attaccare e distruggere lo Stato: ammazzavano solo persone e distruggevano famiglie. La dozzina di interviste, dall' allora sindaco di Torino Diego Novelli al giornalista Ettore Boffano, dall' ex militante di Lotta Continua Silvio Viale al giudice Giancarlo Caselli, riportano in primo piano i venti uomini trucidati a Torino e provincia: Emanuele Iurilli, Carmine Civitate, Giuseppe Ciotta, Fulvio Croce, Roberto Crescenzio, Carlo Casalegno, Rosario Berardi, Piero Coggiola, Lorenzo Cutugno, Salvatore Lanza, Salvatore Porceddu, Giuseppe Lorusso, Carlo Ghiglieno, Giuseppe Pisciuneri, Antonio Pedio, Sebastiano D' Alleo, Francesco Cusano, Carlo Ala, Benito Atzei, Bartolomeo Mana. Studenti, baristi, poliziotti, avvocati, giornalisti, impiegati, dirigenti, agenti di custodia, guardie giurate. Vittime di una guerra dichiarata da una parte sola. Via Millio 64, via Po 46, via Gorizia 67, via Petrarca 32, via Perrone 5, piazza Stampalia, eccetera sono i luoghi della mattanza, un rosario geografico, stazioni di un calvario cittadino. Nota Andrea Casalegno, figlio del vicedirettore de La Stampa colpito il 16 novembre 1977, morto dopo tredici giorni di agonia: «Uno può essere ex brigatista, ex terrorista, ma non può essere ex assassino. Assassino era e assassino rimane». Riconosce Ezio Mauro, direttore di Repubblica, cronista di quei fatti e quegli anni: «Le famiglie delle vittime sono state lasciate sole. Ho capito che per superare la fase del terrorismo bisogna rendere onore a loro. Solo dopo essere passati per questa stazione dolorosa e aver trasformato quel lutto privato in lutto della Repubblica, in un vero momento di condivisione, soltanto allora si può chiudere quella stagione. Probabilmente ci siamo, con ritardo drammatico». Ricordare serve a noi, più che alle vittime. Serve al futuro, più che al dolore. - Gian Luca Favetto (dal sito Repubblica.it)
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